I magistrati fanno un uso politico della giustizia?

Piercamillo Davigo e Nicola Morra

Oggi “Intromittunt se de omnibus”, si impicciano di tutto, i P.M. ed i Giudici penali.

Perseguire i reati, veri o immaginari è la chiave per l’accesso all’esercizio, di fatto, del potere esecutivo e della stessa “politica”.

Quando, invece, secondo il fondamentale principio della divisione dei poteri, si imporrebbe una netta separazione tra il legislativo, l’esecutivo ed il giudiziario. Una separazione teorizzata due secoli e mezzo fa e realizzata faticosamente con la creazione dello Stato moderno e l’avvento delle libere istituzioni.

Assieme all’”intromittere se de omnibus” dei P.M. e dei Giudici Ordinari fiorisce uno strano fenomeno: quello di una “specializzazione”, non nelle funzioni, ma nell’abuso di quegli strumenti che la legge (in verità sempre più sgangherata al riguardo nelle sue “novità”) fornisce agli scalpitanti magistrati “ratione peccati” per perseguire i reati.

E poiché nella legislazione criminale ci si accosta sempre più alle tesi che, con una spolverata di retorica democratica e di argomentazioni sociologiche, sono pur sempre quelle della giustizia nazista (punire chi è capace e proclive a commettere un reato senza che debba proprio averlo commesso) lo sbandamento ed il debordare diventa invasione del potere esecutivo e della politica. Ma, abbandonando la “divisione dei poteri” sembra che le diverse istituzioni territoriali giudiziarie si “specializzino”, come dicevamo poc’anzi, nel tipo di utilizzazione distorta, oltre che nella stessa distorsione “dei mezzi giudiziari”.

Prima le dichiarazioni del presidente dell’Anm Camillo Davigo, poi il caso Piergiorgio Morosini hanno fatto tornare d’attualità nel dibattito politico il tema della politicizzazione della magistratura.

Nella sua analisi, Giovanni Fiandaca ,aveva colto il centro nevralgico del problema: “La discrezionalità, a seconda dei casi più o meno ampia, inevitabilmente connessa all’interpretazione giudiziaria, funge infatti da porta di ingresso per un insieme eterogeneo di fattori di condizionamento di natura ‘extra-legale’: fattori che vanno dagli orientamenti politico-culturali della corrente di appartenenza al sistema personale di valori, alla fede politica e alla sensibilità del singolo magistrato. Ora, una libertà interpretativa influenzata da opzioni di valore è stata consapevolmente teorizzata da una corrente come Magistratura democratica, che non a caso è quella che si è tradizionalmente distinta rispetto alle altre correnti per una maggiore capacità di elaborazione culturale. E la spiccata attenzione per le valenze politiche dell’attività giurisdizionale ha, contemporaneamente, alimentato forme di proiezione pubblica e di militanza extra-giudiziale così esplicite, anche sul piano dell’esposizione mediatica, da trasformare il magistrato in uno degli attori politici che occupano la scena pubblica”.

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